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Che show la politica

di Paola Stringa

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11 febbraio 2010
Alastair Campbell


Lavorava per Downing Street, ora lavora per se stesso. È stato il portavoce di Tony Blair, ha ridisegnato l'immagine del Labour inglese, è stato tra gli artefici dell'ultima dottrina novecentesca, quella Terza via che ha trasformato la sinistra europea. Oggi? A 52 anni, è con l'ex primo ministro al centro dell'inchiesta sull'invasione dell'Iraq e respinge davanti alla Commissione Chilcot le accuse di aver reso più "sexy" il dossier sulle armi di distruzione di massa per giustificare l'entrata in guerra della Gran Bretagna. E rivendica il diritto a una seconda vita, lontana da quel centro di gravità pubblico-mediatico del quale entrambi hanno fatto parte. Eppure, anche nella riservatezza british della bella casa di Hampstead Heath nella quale ci riceve, non rinuncia a dispensare consigli ai laburisti e a fare previsioni sulla prossima campagna elettorale, mentre i giornali gli attribuiscono già la paternità di alcuni slogan che starebbero facendo risalire le quotazioni della sinistra: gli analisti hanno teso le orecchie quando hanno udito lo sbiaditissimo Gordon Brown mettere sotto accusa la proposta dei Tory di innalzare a un milione di sterline la soglia per la tassa di successione, definendola «un'idea nata nei campi da gioco di Eton» (il collegio dell'aristocrazia dove ha studiato Cameron). Dietro tanto populismo soft e cool non poteva che esserci di nuovo la firma del geniale stratega di un decennio di successi elettorali.
Tuttavia, incontrandolo a casa, non si ha l'impressione di fare la conoscenza del più spietato maestro della comunicazione politica degli ultimi tempi. Sofisticato quanto radical chic, l'ex spin doctor di Tony Blair è anche un padre abbastanza affettuoso da accompagnare la figlia adolescente al concerto londinese di Miley Cyrus, la protagonista di Hanna Montana, l'icona della cultura pop under 15. «Tre ore in mezzo a un branco di ragazzine urlanti per vedere l'ultimo prodotto dello show business. A volte penso che ci sia qualcosa di folle nella cultura della celebrity», ci confessa. Un ambiente che ha analizzato nel suo romanzo in uscita, Maya (il primo, All in the mind, del 2008, è stato tradotto in francese e portoghese) la cui protagonista è una star del cinema inglese.

Lei ha dichiarato di non essere un grande fan della cultura delle celebrità: allora perché l'ha messa al centro della sua storia?
«Non ho voluto costruire un libro su una particolare questione, come nel precedente romanzo, incentrato sul tema della salute mentale, e non ho inteso esprimere nessun giudizio sulla cultura del divismo. Mi interessava piuttosto ragionare sul fatto di essere famosi, sul lato privato delle vite pubbliche e sul ruolo dei media nella costruzione dell'immagine di un divo».

Di nuovo il ruolo dei mass media: lei è sempre uno spin doctor, anche se dice di non esserlo più.
«Il ruolo dei media è fondamentale nella costruzione dell'immagine di una celebrità; i media creano i personaggi e li cambiano ogni giorno, per questo continuo a sostenere che siano i media i veri spin doctor».

Come è diventato il direttore della comunicazione del primo ministro Tony Blair e come giudica, a distanza di qualche anno, la fine di quell'esperienza?
«Ero passato dal giornalismo alla politica e avevo cominciato a seguire il Labour Party. Quando Tony è diventato leader e mi ha chiesto di lavorare per lui, ho accettato: al governo tutto è accaduto molto più rapidamente di quanto noi fossimo in grado di prevedere. Il sistema dei media stava cambiando e noi, per quanto provassimo di tutto, non riuscivamo a stare al passo. C'era sempre una grande pressione e dettare l'agenda diventava ogni giorno più difficile. Come ha detto Blair nel suo ultimo discorso pubblico, la stampa è una belva selvaggia, affamata di storie. I media non sono normalmente interessati all'attività quotidiana della politica, al lavoro delle commissioni, ai discorsi parlamentari, ma piuttosto agli scandali: parlo soprattutto della televisione e dei tabloid. Credo però che il sistema sia al tramonto: i social media, Twitter, Facebook e tutti gli altri strumenti che usano le giovani generazioni stanno cambiando la cultura dei media».

Perché ha lasciato la politica?
«Ero diventato il simbolo di tutto questo complesso sistema di relazioni pericolose tra i mass media e la politica e ne avevo abbastanza. Ma il motivo principale credo abbia a che fare con la risoluzione di un mio conflitto interiore. Sono sempre stato diviso tra il senso del dovere, della causa, e il desiderio di libertà. E alla fine ho scelto il secondo. Oggi faccio quello che mi pare, non ho nessuno che mi detta l'agenda e scelgo giorno per giorno senza un piano preciso: leggo libri, curo il mio blog... In realtà non lavoro solo per me stesso, ho diversi committenti tra i quali due grandi fondazioni umanitarie e poi c'è il mio impegno con il Labour».

Aveva nostalgia della scrittura, il suo primo amore? Ha cominciato scrivendo storielle hard per un giornale satirico dove si firmava "Il gigolo della Riviera"...
  CONTINUA ...»

11 febbraio 2010
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